Cina : l'esito del XVII Congresso Nazionale

Argomento: Cina

Con la fine del XVII Congresso Nazionale del Partito Comunista (15-22 ottobre), la Cina dà il via a un nuovo quinquennio di governo che terminerà ufficialmente nel 2012. In realtà, la settimana clou della Repubblica Popolare è solo una prosecuzione di un percorso che dura da anni, ma è pur sempre importante vedere, attraverso alcuni piccoli dettagli, quale effettiva modifica è stata apportata al gigante asiatico: concetti, leader e nuove prospettive dell’amministrazione di Hu Jintao.

Luca Alfieri

La scientificità dello sviluppo
Le dichiarazioni finali del XVII Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese rivelano un forte pragmatismo di fondo, attitudine politica che comunque pare rappresentare il trend più diffuso in numerosi Paesi, come nel nostro continente sta apparentemente dimostrando il francese Sarkozy e dopo che, per dieci anni, in Gran Bretagna ha governato un laburista “sui generis”. Il documento firmato dagli oltre 2.000 delegati del Partito offre per l’appunto al mondo una visione marxista che dell’economista tedesco conserva solo il nome. In altre parole si tratta del noto “Socialismo con caratteristiche cinesi”, figlio delle riforme e delle aperture denghiste degli anni Ottanta, che lascia spazio all’intervento delle forze di mercato (pilotate) entro i confini nazionali. La risoluzione del 22 ottobre (che, tradotto in termini pratici, altro non è che l’approvazione del rapporto presentato da Hu Jintao a inizio Congresso, già studiato e visionato dagli stessi delegati di partito durante l’anno appena conclusosi) parla infatti di “adattamento del marxismo alle condizioni [attuali] della Cina”, che per stessa ammissione della leadership di Pechino si trova in una complicata situazione. Quali sarebbero quindi queste condizioni? Uno forte sviluppo sbilanciato a favore delle province costiere e conseguentemente una notevole arretratezza di quelle interne.
Per questo motivo Hu Jintao, deciso sostenitore di quell’obiettivo politico che da qualche anno è noto con il nome di “società armoniosa”, è riuscito a far inserire nella Costituzione un emendamento che rappresenta la sua personale traccia nella storia della Cina contemporanea, come già accade in epoche passate per mano dei suoi predecessori; al Marxismo-Leninismo, al Pensiero di Mao Zedong, alla Teoria di Deng Xiaoping e alle Tre Rappresentanze di Jiang Zemin si aggiunge così il Perseguimento Scientifico dello Sviluppo di Hu Jintao. In maniera stilizzata, si potrebbe dunque sintetizzare il percorso cinese dal 1949 a oggi con pochi termini: nascita e costruzione (Mao), riforma (Deng), ripartenza e spinta in avanti (Jiang), assestamento (Hu). Semplice? Tutt’altro. Presa coscienza della difficile situazione del Paese, che secondo la risoluzione si trova ancora “al primo stadio del socialismo”, l’assestamento desiderato da Hu Jintao trova la sua via di realizzazione principalmente nel rafforzamento del Partito, eliminando il cancro della corruzione al suo interno attraverso un formazione più severa e perseguendo lo sviluppo di metodi più democratici e meritocratici di selezione. Via libera alle elezioni interne, dunque? Non esattamente. Non bisogna lasciarsi ingannare. La democrazia a cui si fa riferimento nel testo non deve essere intesa tale e quale alla democrazia a cui sono abituati gli occidentali e, proprio perché priva di radici in territorio cinese, la democrazia euro-atlantica potrà giungere nella Repubblica Popolare solo al prezzo di enormi sconvolgimenti sociali.
In che modo bisogna tradurre allora il termine “Minzhu” (democrazia), che Hu Jintao ha ripetuto “ben 60 volte” nel suo discorso d’apertura, come hanno fatto notare le agenzie di stampa nazionali? Secondo lo sviluppo scientifico, l’apertura “democratica” di Hu è vera solo se subordinata al controllo del partito sulla vita politica ed economica nazionale. Anche il pluripartitismo, di cui si è parlato, esiste se e solo se viene preventivamente riconosciuta la leadership del PCC. Le proposte riformiste sono quindi ammortizzate da una ventata di ortodossia. La “democraticità” di Hu è dunque il compromesso sorto dallo scontro tra un’ala più moderata ed una più conservatrice.

Il nuovo Comitato Permanente
Al di là delle dichiarazioni, delle risoluzioni e delle intenzioni, ciò che conta sono gli uomini destinati a metterle in pratica. Più che il documento conclusivo, quello che realmente interessa alla Cina, all’Asia e al Mondo è l’elenco dei nomi che troveranno un posto a sedere nel Comitato Permanente del Politburo, il vero centro di potere cinese.Dalla nascita del Partito Comunista, il Comitato Permanente rappresenta la cartina tornasole degli equilibri di potere all’interno della Repubblica Popolare ed anche in questa occasione è stata confermata questa legge non scritta.Dei nove nomi che compongono la formazione di punta della piramide cinese, cinque sono le conferme, quattro gli esclusi e quattro le novità. Tra i confermati, naturalmente, Hu Jintao (64 anni), affiancato da Wen Jiabao (65, fedele alleato di Hu), Wu Bangguo (66) Jia Qinglin (67) e Li Changchun (63).Non fanno più parte del Comitato Permanente Huang Ju (deceduto in giugno), Luo Gan (73 anni), Wu Guanzheng (69) e Zeng Qinghong (68).Siedono per la prima volta sulle poltrone del potere Xi Jinping (54), Li Keqiang (52), He Guoqiang (63) e Zhou Yongkang (64).
L’uscita di scena di uomini come Zeng Qinghong, Luo Gan e Wu Guanzheg (per raggiunti limiti di età) e del deceduto Huang Ju, potrebbero corrispondere ad una più ampia libertà d’azione per Hu Jintao. I quattro “anziani” del Comitato Permanente erano infatti uomini del Presidente Jiang Zemin, vertice della celebre fazione di Shanghai, orientata verso lo sviluppo economico ad ogni costo.Ciononostante, l’aria di compromesso ha soffiato anche nella scelta del Comitato Permanente. Il fattore Jiang è tutt’altro che scomparso dalla scena e Hu Jintao dovrà convivere per altri cinque anni con uomini fedeli al suo predecessore. Oltre a Wu Bangguo, Li Changchun e Jia Qingling, personaggi posti nel Comitato Permanente nel 2002 proprio per controbilanciare l’ascesa di Hu Jintao, dei quattro nuovi leader solo Li Keqiang rappresenta un “uomo di Hu” a tutti gli effetti. Gli altri sembrano legati in un modo o nell’altro alla figura di Jiang Zemin.Hu Jintao si ritrova dunque con due soli alleati su otto membri, mentre la lunga mano di Jiang può contare ancora su almeno cinque fedeli dita: Wu Bangguo, Li Changchun, Jia Qingling, He Guoqiang e Zhou Yongkang (sebbene il legame delle alleanze non scritte sia sempre molto fragile).La vera incognita è però rappresentata da Xi Jinping. Anche se molti vogliono ricondurre la sua figura al solito Jiang Zemin, Xi deve la sua effettiva fortuna alla suo discendenza. Suo padre, Xi Zhongxun, fu uno dei fondatori del partito comunista, e questo fa di lui un “principino”, ossia una delle tante personalità che brillano della luce dei propri genitori. In ogni caso, neanche lui è un uomo di Hu Jintao.La giovane età di Xi, solo due anni in più di Li Keqiang, può essere però una chiave dell’incognita. Da questo Comitato Permanente dovrà infatti scaturire colui che, a partire dal 2012, ricoprirà la carica di Presidente della Repubblica per circa dieci anni. Tenendo presente la norma secondo cui in prossimità del settantesimo anno di età ogni carica istituzionale deve essere abbandonata, il futuro leader non dovrà avere più di 65 anni nel 2012 e dunque meno di sessanta oggi.
Se Li Keqiang fosse stato il solo a soddisfare questo requisito, sarebbe stata pressocchè automatica la sua prossima nomina a leader cinese. La presenza di Xi rivela quindi una scelta di compromesso a cui è dovuto scendere Hu Jintao per evitare di vedere un suo protetto immediatamente innalzato agli onori della cronaca, seppure in modo virtuale.Naturalmente da qui al 2012 possono succedere moltissime cose e la storia cinese insegna che nuovi “concorrenti” potrebbero improvvisamente apparire nella corsa alla successione. Lo stesso Jiang Zemin sorse dalle ceneri di Zhao Ziyang dopo che, nel 1989, la crisi di Piazza Tiananmen aveva trasformato il prescelto di Deng Xiaoping in un esiliato politico in patria. (sorprendentemente, Jiang Zemin venne nominato Segretario Generale del PCC nel giugno 1989 mentre Zhao Ziyang fu privato di tutti i suoi poteri; morì nel silenzio nel gennaio 2005)

Da Taipei a Washington, passando per Naypyidaw
Fatta eccezione per alcune ovvie dichiarazioni in cui è stato confermato l’orientamento cinese verso uno sviluppo pacifico delle relazioni internazionali, lo spazio dedicato ai rapporti esterni e alla politica estera sono stati minimi. D’altro canto, l’obiettivo primario del Congresso era quello di riorganizzare il partito, stilare resoconti e porre le linee base per la crescita economica e sociale interna di domani.Spicca però, tra le altre cose, il messaggio di pace che Hu Jintao ha rivolto ai “compatrioti di Taiwan” nel primo giorno del Congresso. Ribadendo la contrarietà di Pechino ad ogni possibile spinta indipendentista (“Non vacilleremo mai riguardo al principio dell’Unica Cina, non abbandoneremo i nostri sforzi per raggiungere una riunificazione pacifica, non cambieremo mai la politica di speranza nei confronti dei taiwanesi e non comprometteremo la nostra opposizione alle attività secessioniste dirette ad un’indipendenza di Taiwan”), Hu Jintao ha nettamente cambiato registro rispetto ai mesi scorsi, quando sottolineava la linea dura dichiarandosi disposto a impedire l’indipendenza con ogni mezzo, compreso quello militare. 
A cosa è dovuto questo improvviso “cambio di rotta”? Le risposte possono essere molteplici. Innanzitutto, un ruolo importante lo assume il contesto entro cui la dichiarazione è stata pronunciata. Un discorso gravido di buoni propositi non può contenere al suo interno anche solo delle ipotesi di uso della forza.In secondo luogo, la proposta di risoluzione pacifica è subordinata alla sola condizione che “Taiwan è indiscutibilmente cinese”; condizione peraltro rafforzata dal sostegno e dall’apprezzamento che gli Stati Uniti hanno palesato alla Cina negli ultimi mesi, probabilmente costretti a questa scelta dalle proposte indipendentiste di Chen Shui-bian; gli Stati Uniti infatti propendono non per l’indipendenza dell’isola, bensì per il mantenimento dello status quo (situazione che, tra i tre attori, giova proprio a Washington) o almeno per una risoluzione pacifica del dilemma. Pace che per parte dell’opinione pubblica dell’isola suona come “Pax Cinese”.
In terzo luogo, il ramoscello d’ulivo di Hu rappresenta un intervento di Pechino nella campagna elettorale di Taiwan, che vede opporsi a Frank Hsieh (appartenente al PDP, il partito di Chen) un più accomodante Ma Ying-jeou (KMT). Non si tratta certo di “dividi et impera”, tuttavia una Cina meno cruda aumenterebbe le chanches di vittoria del KMT, per nulla interessato all’indipendenza dell’isola e molto più propenso alle strette di mano con i cinesi continentali.In ultimo, quello attuale non è proprio il momento adatto per muovere una guerra nello Stretto. Nonostante i missili situati nel Fujian e puntati verso Taiwan, e nonostante in questi giorni sull’isola si stia discutendo della produzione dello Hsiung Feng III (un potente sistema missilistico anti-nave, chiaramente orientato a difendere la costa da un eventuale attacco navale, settore a cui la Cina sta dedicando ampi investimenti), Pechino è al momento preoccupata dall’instabilità del Myanmar.Additata come principale alleato della giunta del generale birmano Than Shwe, la Cina condivide con l’ex Birmania anche la difficile gestione dei monaci buddisti. La protesta che attualmente sta tenendo impegnato il governo di Naypyidaw potrebbe infatti sconfinare nel Tibet, altra regione sensibile per Pechino. 
In questo senso, la mossa di Washington di invitare alla Casa Bianca il Dalai Lama per poi premiarlo con una medaglia d’oro al Congresso (proprio nella settimana più importante della politica Cinese), ha di fatto lanciato un chiaro messaggio ai monaci: “noi siamo con voi”. Messaggio che, dal Myanmar, si è subito esteso al Tibet, dove (fa sapere un giornale di Hong Kong) si è già scatenato un accenno di rivolta da parte dei monaci locali, subito sedato.

Conclusioni
Molti parlano di questa Cina come frutto dei compromessi di Hu Jintao. La squadra scelta per gestire i prossimi cinque anni è infatti un misto di due correnti contrastanti e le stesse politiche sono una via di mezzo tra il riformismo e l’ortodossia: maggiore attenzione allo sviluppo economico interno e alla restrizione della forbice sociale, ma anche maggior controllo da parte del partito sulla vita politica ed economica del Paese.D’altro canto, difficilmente l’attuale Presidente avrebbe potuto eliminare del tutto la fazione di Jiang Zemin, costituitasi e rafforzatasi tra il 1992 e il 2002, e ampiamente presente anche nei cinque anni successivi.
Inizia dunque ora la prova del fuoco per Hu Jintao. Dentro e fuori i confini cinesi, il leader sa che ogni sua mossa verrà scandagliata dalle varie correnti interne al partito e il destino del suo erede (Li Keqiang) dipenderà prima di tutto da lui e dai suoi fedeli, in primo luogo il Premier Wen Jiabao.

Equilibri.net (29 ottobre 2007)

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